di Francesca Delvecchio

La parola ha dei poteri. È in grado di insinuarsi nelle fibre del cervello e convincerti di qualunque cosa ti venga detta, che sia stata espressa con cattiveria o con bontà.

Le parole sono lame. Troppo spesso non ci si rende conto del dolore che possono causare. Quasi nessuno lo fa nella nostra società. Vengono lanciate come frecce, senza ponderare la forza e senza pensare che, invece di fare determinate affermazioni, sarebbe meglio non dire niente.

È dalla parola violenta che nasce una narrazione di violenza. La parola si consuma in atto e dall’atto subito nasce la narrazione di donne che raccontano la propria esperienza di violenza. Riportano le parole che sono state dette loro prima di venir picchiate, prima che la loro libertà fosse “semplicemente” in pericolo e non esplicitamente depredata.

L’Associazione di volontariato “Rompi il silenzio” di Rimini nasce nel 2005. È il primo centro contro la violenza sulle donne che sorge nella provincia, mentre in altre città questi centri erano presenti già da anni: dal 1988 a Modena, dal 1990 a Bologna.

Un centro antiviolenza permette un contatto diretto tra le donne che hanno bisogno di aiuto e le donne operatrici, le quali accolgono il racconto di chi ha bisogno, orientando in seguito l’attività di accoglienza verso diverse soluzioni pratiche, che possono essere supporto legale, psicologico, messa in sicurezza, aiuto nel trovare un nuovo lavoro.
“Rompi il silenzio” assicura reperibilità notturna e festiva ed è costantemente in contatto con le forze dell’ordine e con gli altri soggetti della rete antiviolenza provinciale.

Ma non basta. L’aiuto per quanto sia indispensabile, giusto e indubitabile non è tutto. Non è efficace nel tempo se non c’è presa di consapevolezza in ognuno. L’atto violento non è solo un atto fisico, è anche un atto verbale e, prima di tutto, di pensiero.

La nostra è una società fatta di comunicazione. C’è libera espressione, libertà di pensiero, ma non c’è presa di coscienza, su certe tematiche, del rispetto dell’altro.

A prescindere dalla norma che dovrebbe pervadere il pensiero di ogni cittadino, ovvero che non si deve usare la violenza in alcun modo e sopra nessuna persona, ogni giorno leggiamo queste notizie:

  • Sui giornali: “Donna uccisa dal marito. Voleva lasciarlo”. Pensiero comune: “È colpa della donna… se non avesse voluto lasciarlo, non l’avrebbe uccisa”. Domanda che, invece, dovrebbe scoppiare nella testa di qualsiasi persona: “Ma cosa ha dovuto subire quella donna per arrivare a dover lasciare il marito?” e soprattutto: “Chi era questa donna? Come si chiamava?” Spesso non si rivela neppure il nome proprio della donna uccisa. Le si sottrae specificità, umanità, la si deumanizza, facilitando così la colpevolizzazione della vittima, anziché il giudizio morale sull’azione compiuta dal maltrattante.
  • Sui social il pensiero latente non è diverso. La donna che esprime il proprio pensiero e lo fa senza nascondersi, mostrando la propria intelligenza o la conoscenza di un certo argomento, non può farlo impunemente. Spesso, troppo spesso, le risposte che ottiene sono pesantemente offensive, feriscono sia nel corpo che nella persona. Non si scandalizza ormai più nessuno a sentire o a leggere certe parole: “puttana”, “troia” ecc. Ad un discorso libero e pulito, la risposta e la presa di posizione dell’interlocutore sono troppo spesso maleducate, incivili o francamente violente. Non si risponde alla donna da pari, sfidandola sul piano della competenza: la si “rimette al suo posto” spostando il discorso sul piano dell’attacco con insulti relativi alla sessualità o alla (s)gradevolezza fisica. Il piano della relazione diviene quello di una sorta di stato primordiale, in cui tutto ciò che conta è il suo corpo sessuato, tradizionalmente in potere del maschio. Un corpo più “debole” di quello dell’uomo (ma se volessimo parlare di vera debolezza fisica, dovremmo aprire un’altra porta, altri racconti e altre parole).

Allora dove si va a finire? In che società siamo? Davvero è questo il meglio che sappiamo fare?

Di quello che le succede, la vittima di violenza si vergogna come fosse sua la responsabilità, ma non è rispondendo al posto suo o espropriandola del diritto di mettere le proprie parole nella narrazione della sua esperienza, che la si aiuta davvero. La si aiuta ascoltandola, validando e accogliendo con rispetto ed empatia il faticoso racconto del suo dolore, agevolandola nel riprendere il controllo sulla sua storia, sostenendola nel processo di riappropriazione di sé e delle proprie abilità e competenze. È questo che fa l’Associazione “Rompi il silenzio”, ma tutti, proprio tutti noi, possiamo essere d’aiuto.

La violenza è universale. Non riguarda solo le donne, ma anche i bambini, i deboli, gli immigrati, gli ultimi, coloro che non sono riusciti a emergere in questa vita frenetica che ci contraddistingue. Tutti noi siamo la donna o qualsiasi persona che subisce violenza. La violenza è un’abitazione di tutti e se è così servirebbe che ognuno facesse qualcosa.

Dunque, il vero potere è il pensiero, perché le parole sono pensiero. Proviamo a pensare senza avere parole con cui pensare, se ci riusciamo. Il fatto nasce dalla parola e troppo spesso il legame tra la parola e la violenza è misconosciuto, in quanto certi tipi di dialogo nella società sono stati legittimati e ormai equivalgono, anche se violenti e fuorvianti, alla normalità.

La verità, invece, è che si deve e si può agire sulle parole, sul potere della narrazione. Ci vorrebbe davvero poco per trasformare un “non capisci un c****” in “non sono d’accordo, secondo me…”, ma bisogna lavorarci tutti insieme. Lavorare sulle nostre credenze e sui pensieri qualunquisti.

Invitandovi allo spettacolo che parlerà proprio di questa tipologia di violenza sulle donne, il 22 luglio con lo spettacolo La sorella di Gesucristo, di e con Oscar De Summa, vi lascio con questa citazione dal film The Iron Lady, con Meryl Streep nei panni di Margaret Thatcher:

“Cura i pensieri e diventeranno parole. Cura le tue parole e diventeranno le tue azioni. Cura le tue azioni, perché diventeranno le tue abitudini. Cura le tue abitudini, perché diventeranno il tuo carattere e cura il tuo carattere, perché diventerà il tuo destino. Quello che pensiamo, diventiamo.”