Lettera ai Visionari

Le Città Visibili

Cari Visionari,
non è il giudizio il motivo per cui stiamo assieme. È il percorso che ci interessa.
Viviamo in un’epoca in cui è divenuta una moda mettersi in cattedra e giudicare gli altri. Basta accendere la tv, leggere un giornale (anche quelli che si presentano come i più evoluti dal punto di vista culturale) per vedere come la grande mania di giudicare tutto e tutti sia all’opera. La smania di giudizio pervade la nostra società. E soprattutto sono i più giovani quelli maggiormente bersagliati da questa passione giudicante dei sedicenti “esperti”, così che spesso si sconfina nel paternalismo, nel qualunquismo, nella volontà di omologare il diverso a ciò che si conosce già. Pensate che geni eversivi come Aristofane, come Caravaggio, come James Joyce, come Buster Keaton, come Janis Joplin (cito un po’ di miei amori, a caso), sarebbero sopravvissuti e divenuti grandi se avessero accettato tutti i consigli datigli per il loro bene, espressi da chi era, o si dichiarava, competente? Punto 1: voi non siete qui per giudicare.

E infatti, già nel vostro nome – “I Visionari” – è nascosta la forza eversiva di un diverso punto di vista. La parola “Visionario” ha nella sua radice il termine “vedere”, che è operazione orizzontale, che non richiede l’ergersi sopra qualcosa, ma piuttosto il mettersi di fronte. Ma c’è di più, perché la parola “visione” rimanda all’andare oltre ciò che si ha immediatamente di fronte, e traina il concetto di “perdita”, cioè perdersi dentro ciò che si vede, e così apre all’idea di “immaginazione”, perché mentre si è persi in ciò che si vede, si è trasportati oltre e si comincia a immaginare altro. E poi voi siete “Visionari”, cioè plurali. E in un mondo dove ognuno vale per sé, in cui l’unica idea di vita sociale che si riesce ad ammettere per andare oltre l’individualità è a mala pena quella della famiglia (che i nostri politici hanno sempre in bocca…), voi che vi incontrate ogni settimana, che siete disposti a mettere in comune le vostre intelligenze e sensibilità per fare un lavoro di gruppo, voi che state in ascolto delle nuove generazioni, rappresentate un modello di socialità ormai perduto e completamente estraneo al mondo che avete intorno.

Vedete che non si può fare a meno, parlando di voi, di esprimere un concetto di alterità: “la visione è oltre”, ho scritto sopra, e ancora: “voi rappresentate una cosa diversa”, ho proposto poco sotto. Punto 2: voi siete altro rispetto al panorama sociale che avete intorno.

E dunque voi siete un’eccezione preziosa nel panorama valtiberino, nel panorama aretino, ma pure in quello regionale e nazionale. La vostra disponibilità a incontrare persone, scambiarsi opinioni, discutere di differenti punti di vista, è totalmente fuori dalla pigra logica dell’assuefazione che domina il nostro vivere sociale. E c’è di più: voi mettete questo sforzo di relazione al servizio di qualcosa che è considerato solo un accessorio. Perché così è che la società intorno a noi considera la cultura, e in particolare lo spettacolo dal vivo, più di tutte le altri arti: un accessorio che abbellisce la nostra vita sociale, ma di cui si può anche fare a meno. In quanti sottoscriverebbero l’idea che un teatro conta quanto un ospedale? Tutti difendiamo la scuola come luogo di trasmissione culturale, ma sareste pronti a fare le stesse battaglie per un centro d’arte contemporanea o una compagnia di danza? Solo in rari – e tra l’altro poco fortunati – momenti della vita dell’umanità si è pensato alla cultura come a un patrimonio primario (mi viene in mente la Russia sovietica, con gli esiti che sappiamo…). Ma forse è normale che sia così. Voi che vi interessate di cultura siete degli irregolari. Perché non può essere regolare chi si pone domande. E nessuna società può considerare come patrimonio da difendere chi la attacca e la mette in crisi. Perché dietro ogni proposta artistica ci sono delle domande. E gli artisti sono quelli che hanno il coraggio di portare le cattive notizie che ci

riguardano. Perché di domande parliamo, e lasciamo che le risposte siano lasciate al cuore e al cervello di ciascuno spettatore.
Punto 3: tra tutte le proposte di spettacolo che riceverete, voi dovete cercare chi pone le migliori domande e chi le pone nel modo che più vi tocca.

Ma voi siete altro anche all’interno del mondo di coloro che invece credono alla cultura come patrimonio. Siete altro rispetto ai professionisti della cultura. Perché la vostra ignoranza in materia di mode, tendenze, stili e poetiche dello spettacolo nel secondo Novecento e nell’epoca contemporanea è ai miei occhi una promessa di ricchezza. Tra quelli che si occupano di teatro e danza in Italia, voi siete tra i pochi che possono farlo nella felice posizione di chi non ha alcun interesse personale da spendere, nessuna utilità pratica, personale o professionale da ricavarne. Quella che voi chiamate “ignoranza” (“io non ci capisco niente di teatro”, “io non ne so niente di danza”) è la vostra forza.
Punto 4: fidatevi dell’ignoranza del vostro sguardo.

C’è un rischio in ciò che fate. Non si deve credere che la vostra purezza quanto al teatro sia intoccata. Voi siete sporchissimi di mondo. E soprattutto conoscete benissimo quegli straordinari veicoli di trasmissione della conoscenza che sono i linguaggi della pubblicità, della tv, del cinema, che sono mille volte più capaci del teatro di trattare l’immagine e il pensiero con incisività, democraticità, capacità di permeare gli immaginari. Di solito il teatro risponde con sdegno e superiorità a questi mezzi. E la sua superiorità gli deriva dalla convinzione di essere il più antico di tutti. Questa superiorità trasuda dai nostri velluti, dalle nostre intelligenze di teatranti sempre ostentate, ed è anche quella che fa scappare dal teatro molte persone. Ma questa superiorità legata a un antico rango non significa niente. Noi mica viviamo per l’antichità, noi viviamo per l’oggi. E allora è giusto che l’etere vinca sull’antico teatro, perché esso è molto migliore a rappresentare il lato diretto e immediato dell’immagine.
Al teatro non resta che arrendersi allora?
Qui comincia anche la vostra scommessa.
Io, voi, noi tutti, siamo corrotti dalla superficie dell’immagine e dalla semplicità del discorso che gira intorno a noi. Non è un guaio: l’uomo ha anche bisogno di superficie. Ma la sfida del teatro, la sfida che i Visionari lanciano a se stessi è quella della profondità. Il teatro è quello che vede oltre, sotto, di là dalla superficie. I Visionari, per quanto non allenati, per quanto non specialisti, possono sfidare se stessi nella loro capacità di intuire quest’oltre, questo sotto, questo di là, questo altro.
A chi mi chiede: ma i Visionari non finiscono per scegliere le cose più televisive, cabarettistiche, semplici, superficiali e immediate?, io dico: la sfida che pongono a loro stessi è questa. Riconoscere la vera profondità dallo sterile sentimento di superiorità. Io non ho ricette da insegnare ai Visionari, vi dico solo di fidarvi del vostro punto di vista di esseri umani che cercano altro.
Punto 5: voi siete una scommessa.

Buon lavoro.
In molti ci aspettiamo molto da voi.

Pieve Santo Stefano, 14 gennaio 2009

Luca Ricci