Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.

Va in scena domani sera all’ex Cinema Astoria, per il festival Le Città Visibili, lo spettacolo Con la carabina diretto da Licia Lanera con testo di Pauline Peyrade, vincitore di due premi Ubu nel 2022 come “Migliore regia” e “Migliore testo straniero”. Abbiamo fatto due chiacchiere con la regista prima di vedere il suo spettacolo, che parla di una storia di violenza sessuale.

Come sei entrata a contatto con il testo dello spettacolo? C’è stato un confronto con l’autrice?

«Il lavoro nasce su stimolo di Ermelinda Nasuto, l’attrice protagonista assieme a Danilo Giuva, che desiderava realizzare un lavoro insieme. Un amico comune, Paolo Bellomo, che vive a Parigi ed è molto attento alla drammaturgia contemporanea francese, ha consigliato questo testo a Ermelinda che me lo ha proposto. Leggendolo, mi sono resa conto che sarebbe stato molto nelle mie corde e per questo ho deciso di metterlo in scena. Con l’autrice Pauline Peyrade invece non ho avuto nessun incontro di persona né alcun confronto sul lavoro, bensì solo qualche scambio di mail, al contrario di quanto avvenuto con il traduttore, lo stesso Paolo, che ha fatto un lavoro molto puntuale e importante, perché capace di adattare il testo allo slang del nostro territorio, quello pugliese».

Che ruolo gioca la musica all’interno dello spettacolo? E come sono stati scelti i brani presenti?

«Dell’apparato sonoro si occupa Francesco Curci, sound designer che collabora con noi da un po’ di tempo, e che per questo spettacolo ha creato dei suoni quasi fastidiosi di sottofondo per definire l’atmosfera. È un suono continuo che percorre tutto lo spettacolo, il che rende i dialoghi immersi tra la sospensione e l’inquietudine. Inoltre ci sono due pezzi di Billie Eilish, uno all’inizio e uno alla fine: sono stata suggestionata da alcune foto della cantante vestita con abiti americani sportivi, e abbiamo costruito l’immagine di Ermelinda proprio basandoci su questo stile, grazie al quale ho scoperto una forte connessione con i giovani e i giovanissimi, soprattutto donne. Oltretutto, anche Billie Eilish ha una sua storia di violenza personale e nell’ultimo periodo sta riscoprendo il suo corpo e parla molto della questione femminile».

Come hai scelto di porti davanti a temi non facili da affrontare, come la violenza e l’abuso?

«Mettere in scena temi di questo genere, soprattutto di tipo sessuale, è sempre abbastanza spinoso. Ho scelto questo testo soprattutto per due ragioni: la prima, che si collega ai recenti eventi di cronaca avvenuti Palermo, riguarda il fatto che questi due personaggi non sono due mostri venuti da chissà dove, bensì due ragazzini qualunque, figli di persone normali, di cui non viene indicata la provenienza ma che danno l’idea di essere due adolescenti di provincia. Questo è il senso per me importante di questo testo, cioè il fatto che i due protagonisti sono entrambi normali ma entrambi mostri, perché lui abusa di lei e lei si vendica su di lui in modo terribile molti anni dopo, quindi la violenza è doppia. La seconda ragione è che appunto, più che trovare una vittima e un carnefice, in questo testo si parla di violenza in generale, per cui fatichi a capire dove sta la ragione e dove sta il torto, chi è il buono e chi è il cattivo. A mio parere si tratta di un discorso molto interessante, e per questo ho scelto registicamente di fare un lavoro che permette di porre il pubblico davanti a una visione circolare. Lo spettacolo infatti non viene riprodotto sul palco, ma in luoghi dove il palco non c’è; oppure, se ci serviamo di un palco, su di esso ci sono anche gli spettatori insieme agli attori, in una vicinanza totale. Questo perché voglio che ciò che si vede in questa storia sia sullo stesso piano degli spettatori, proprio perché li riguarda tutti, profondamente».

Nella messa in scena dello spettacolo sono presenti elementi di disturbo molto forti. Perché sono stati inseriti e che funzione hanno per trasmettere il messaggio?

«Effettivamente ho deciso di premere l’acceleratore su alcune cose: con la sinestesia, attraverso l’ambiente stretto e la musica, ma anche con una carcassa di coniglio vera che, dato il numero limitato di spettatori, è facile rendersi conto non essere un pupazzo. Il mio obiettivo è quello di far vivere un’esperienza che dovrebbe portare a una catarsi. Con la carabina è uno spettacolo che scuote e porta a porsi grandi domande. A volte abbiamo bisogno di uno scossone e questo è l’obiettivo che mi sono posta sin dall’inizio. Anche gli attori recitano in una maniera totalmente antiteatrale, si potrebbe dire cinematografica, ma preferisco il termine iperrealista. Ermelinda e Danilo oltretutto sono bravissimi, non imitano i ragazzi né li rappresentano, loro sono e diventano quei ragazzi, dunque è come stare realmente davanti a qualcosa che ti accade sul serio davanti agli occhi, e questo è abbastanza mostruoso. Ciò che mi interessava era proprio far vedere questo lato mostruoso, più che rappresentarlo».

La protagonista decide di vendicarsi per la violenza subita. Oggi a tuo parere esistono tutele sufficienti per evitare che le vittime di abusi si facciano giustizia da sole, oppure questo atto può essere lecito e legittimo e in certi casi diventare inevitabile?

«Da cittadina nel 2023 di un paese europeo, ma anche per la legge del buon senso, penso che ogni forma di vendetta personale debba essere legato al passato o al far west, perché è qualcosa di incivile. Se la giustizia non viene applicata come merita da parte del nostro apparato giuridico, non vuol dire che si debba applicare per conto proprio la legge del taglione, sparando a una persona o seviziandola. Dall’altro lato però, quando parlo del fatto che questo spettacolo, più che a livello legale, agisce proprio a livello istintivo, intendo proprio questo, perché si interroga sulla parte più brutta e forse insita in ognuno di noi, quella più orrenda che può scattare in qualsiasi momento per fattori imprevedibili. Quindi io, che mi rivolgo all’essere umano e ai suoi meccanismi emotivi con lo sguardo da regista e da amante dell’antropologia, posso dire di poter comprendere alcune situazioni e comportamenti, ma questo non significa che li giustifichi. Mi pongo più come una narratrice di un fatto, di un umore, di un dolore e di un’esigenza, piuttosto che come qualcuno che deve insegnare qualcosa. D’altra parte, in un’epoca in cui tutti vogliono dare delle risposte a qualcosa o pensano di poterle risolvere con un post su Facebook, credo che il teatro possa essere il luogo delle domande, non certo delle risposte».

Quindi, da un punto di vista più etico e umano, come vedi questo atto di vendetta?

«La protagonista commette questa atrocità dopo molti anni, per cui non dà l’idea di qualcuno che agisca per un regolamento di conti. Durante la storia viene raccontato che per tutto il resto della sua vita, da quando era bambina fino all’età adulta, è rimasta ancorata a questo trauma, non riuscendo più a farsi toccare da un uomo o ad avere dei rapporti sani, non riuscendo neanche più a vivere. Quindi, arrivata all’esasperazione e quasi impazzita per questo dolore, molti anni dopo decide di sfogarsi in un modo brutale. Più che un regolamento di conti è uno sfogo animalesco che viene da dentro. Questo lato animale, che esplode dopo aver subito una violenza così grave, è allo stesso tempo mostruoso e reale. Nello spettacolo lui commette una violenza per ignoranza, senza avere neanche chiaro ciò che sta facendo a una bambina di 11 anni; lei invece, prima di ammazzarlo, fa a lui delle precise e misurate sevizie, per cui a un certo punto viene da chiedersi chi sia peggio dei due. Ma visto che a quel punto non serve trovare il buono e il cattivo, il peggiore e il migliore, ti sforzi di capire che cosa succede a una persona per arrivare a questi livelli».

Cosa significa per te il teatro?

«Chi fa teatro spesso fa coincidere tutta la propria vita con il teatro stesso. In cambio di tutto quello che ti dà, il teatro ti chiede una sola cosa: la tua vita tutta intera. Dopo avere letto Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, un libro sulla mancata maternità e sul rapporto delle donne con la carriera, mi sono chiesta: “Non so se non faccio figli perché faccio teatro o faccio teatro perché non ho figli”. In ogni caso, la mia vita è totalmente votata al teatro. Mi concedo anche i miei momenti di goliardia e vita, come viaggi e concerti, però tutto è scandito dal teatro. Oltre a essere la mia occupazione totalizzante, è il mio grande amore, e come io lo amo, lui ama me. Non credo che nessuno abbia ricambiato il mio amore quanto il teatro. Inoltre, il teatro è anche il codice stesso con cui guardo il mondo: la musica che ascolto, le persone che frequento, tutto è filtrato dal teatro. Infine, il teatro è anche un’idea di comunità, in un momento storico in cui questo concetto è completamente sfracellato. Ho un gruppo di persone che lavorano con me, alcune da tantissimi anni, e sono diventate una famiglia, perché sono le persone con cui condivido tutto».

Da regista premio Ubu, cosa ne pensi dello scarso numero di donne registe nel panorama del teatro italiano?

«Nella regia come in altri campi, c’è la difficoltà prettamente sociologica di attribuire a una donna un ruolo di comando. E questa è una cosa che fatica a cambiare nel nostro paese. L’Italia è un paese maschilista e gerontocratico: al vertice delle aziende è molto difficile trovare donne al comando; al massimo ci sono una serie di donne messe in posizioni strategiche, ma al vertice c’è sempre e comunque un uomo. Io ho iniziato molto giovane, vent’anni fa, e so che una ragazzetta di 27 anni che si presenta in teatri importanti per curare la regia non viene presa sul serio, soprattutto considerando che il teatro è un mondo di capi maschi: il direttore è maschio, i tecnici sono tutti maschi e così via. Ho dovuto lottare perché l’aiuto tecnico o il facchino si permettevano di dirmi come dovessi fare il mio lavoro, un po’ per presunzione e un po’ per una mancanza culturale. Si tratta di un retaggio che è come gli ulivi in Puglia: hanno radici centenarie e non puoi sradicarle dal nulla, ma va fatto un processo graduale e profondo. Per una regista è molto difficile non essere creduta, perché per fare regia tutti devono fidarsi di te e accettare il fatto che tu comandi, che sei al vertice. In passato per una ragazzina era molto più facile immaginare un futuro come attrice che come regista, perché se non hai modelli di riferimento nella tua mente, pensi che quella cosa non sia adatta a te. Ora invece qualcuno se lo può immaginare, perché sta nascendo una nuova cultura e ci sono sempre più registe».

intervista a cura di Sara Brugnettini