Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.

Va in scena questa sera al Teatro degli Atti di Rimini, per il festival Le Città Visibili, lo spettacolo Non tre sorelle, con la regia di Enrico Baraldi e la collaborazione di attrici sia italiane che ucraine. Queste ultime sono giunte nel nostro paese grazie al progetto Stage4Ukraine, volto ad accogliere sul palco giovani artisti in fuga dalla guerra. Vincitore del premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro, Non tre sorelle pone interrogativi sul ruolo della cultura negli eventi storici contemporanei, attraverso un approccio plurilinguistico e narrativo. Abbiamo intervistato il regista Enrico Baraldi in un momento di pausa delle prove per questa replica.

Non tre sorelle riguarda una guerra purtroppo ancora in corso. Cosa significa portare avanti uno spettacolo su una situazione fluida e in continua evoluzione?

«Questo spettacolo ha la caratteristica di non essere mai finito. Nel riprenderlo per questa replica riminese, ad esempio, ci siamo resi conto che alcune parti del testo riguardanti la guerra in Ucraina devono evolversi rispetto ai cambiamenti avvenuti dall’ultima replica di giugno, così come facemmo allora rispetto al debutto avvenuto l’anno scorso. Quando abbiamo scritto il copione c’erano fenomeni in corso nella vita delle attrici, narrati nella performance, ma ora la situazione è cambiata. E ci sono battute che a volte scrivi e non sai cosa vogliano dire, e magari lo capisci a distanza di due anni replicando lo spettacolo. Tutto ciò è genuinamente bello».

Come è nata l’idea dello spettacolo e come è cambiata dopo l’incontro col progetto Stage4Ukraine?

«La prima idea è arrivata parecchio tempo fa, nel 2018, quando avevo cominciato a studiare Tre sorelle di Čechov. Di questo testo mi interessava allora l’aspetto generazionale della storia: tre sorelle tra i venti e i trent’anni, tre giovani che si chiedono cosa faranno nella loro vita e hanno idee sul futuro ma nessuno strumento per realizzarle, e così si domandano come e perché non riescano a raggiungere i loro obiettivi, simbolizzati dal vivere a Mosca che è metafora di una felicità sempre altrove e mai nel qui e ora. La felicità utopica può diventare il tuo peggiore incubo, forse anche la causa per cui ti rovini la vita da solo, proprio come fanno Maša, Irina e Ol’ga. C’è poi un particolare dato biografico su cui volevo soffermarmi: le tre sono orfane di entrambi i genitori, un tema che ho trovato centrale nel testo ma poco esplorato da chi lo ha messo in scena finora, dunque volevo provarci io.
Sin da subito non volevo affrontare direttamente Tre sorelle portandolo così com’è in scena, né tantomeno facendo una riscrittura a tavolino. Mi interessava invece lavorare con un gruppo di attrici che portassero le loro esperienze biografiche, al fine di farle incontrare col testo e cercare non solo di leggerlo alla luce di se stesse, ma anche di leggere se stesse alla luce del testo. Avevo in mente come creare in teoria questo “doppio rispecchiamento”, ma non sapevo bene come farlo nel concreto. Io e Nicola Borghesi (co-fondatore della compagnia Kepler-452 dove lavora Baraldi, NdR) avevamo iniziato il progetto con un gruppo di attrici e attori nel 2019, ma all’inizio del 2020 la pandemia ci ha interrotti ed è stato tutto rimandato. Poi la storia dello spettacolo ha subito una piega inaspettata proprio quando ho rincominciato a lavorarci da solo nel 2022, e dovendo riformare un cast da zero perché nel frattempo alcuni dei precedenti attori non erano più disponibili. In quei mesi in Ucraina scoppiava la guerra e io, che ho la tendenza a farmi molto coinvolgere dai fenomeni del contemporaneo, ho avuto un periodo di smarrimento e perdita di senso. In seguito a un evento di tale portata, mi sono domandato il perché di ciò che facevamo, alla luce di una cosa così determinante nella storia contemporanea. Già con lo scoppio della guerra ho iniziato a sentire che qualcosa stava succedendo nel mondo dell’arte, e in seguito sono avvenuti tanti episodi che mi hanno fatto riflettere, a partire dalla cancellazione del ciclo di lezioni su Dostoevskij a cura di Paolo Nori alla Bicocca di Milano. Dopo quel fatto, il dibattito sulla guerra è stato intrecciato col tema della cancel culture, in particolare riguardo le opere russe, e io mi accingevo a buttarmi in questo dibattito con un’opera di Čechov, forse l’autore russo più conosciuto. Non avevo e non ho un’opinione rispetto al mettere in scena o meno un testo di un autore russo in quanto tale, però avevo tante domande sul perché alcuni stavano censurando queste opere. La cancellazione del ciclo di lezioni di Paolo Nori è stata una forma di censura, sbagliata in quanto tale, ma mentre su questo si può essere universalmente d’accordo, volevo capire quali erano gli elementi del dibattito e perché mettere in scena un autore russo oggi può ferire o meno la sensibilità di qualcuno. Mentre mi interrogavo su queste tematiche, sono venuto a sapere del progetto Stage4Ukraine, grazie al quale sarebbe arrivato in Italia un gruppo di attrici ucraine in fuga dalla guerra. Ho deciso così di entrare in contatto con questo progetto: anche se la guerra non mi coinvolgeva direttamente, mi sembrava un terreno fertile il fatto di potersi incontrare tutti come parte della comunità internazionale dei teatranti: attori dell’Ucraina e dell’Italia avevano un terreno comune, quello del teatro. Ho iniziato così a condurre alcuni laboratori, durante i quali ho dovuto dichiarare di stare lavorando su un testo di Čechov, ma anche che non lo stavo affrontando con l’idea di metterlo in scena il testo, bensì piuttosto di partire da quel materiale per fare dei ragionamenti».

Come si è evoluto il rapporto con le attrici?

«È stato un dialogo molto interessante e per certi versi non facile, per esempio a causa dell’uso della lingua. Ci siamo domandati cosa significasse leggere i testi di Čechov in lingua originale, e cosa significasse parlare oggi la lingua di una cultura percepita come quella dell’aggressore. È stato un processo a tratti doloroso, anche perché ci sono persone in Ucraina nate russofone che, dovendo identificare la cultura russa come quella del nemico, sentono strappato loro qualcosa. Da questi dialoghi quindi sono emerse molte contraddizioni con cui le attrici stesse erano in contatto, soprattutto all’inizio della guerra. Attraverso i laboratori ho pensato di chiedere a quattro di loro di fare uno spettacolo assieme alle due attrici italiane rimaste dal progetto originale del 2018, nel quale avremmo cercato di parlare anche di questi temi: abbiamo chiesto loro non di recitare Tre sorelle, bensì di usare il testo come terreno di confronto per ragionare sul nostro rapporto con la cultura, per poi cercare dei punti in cui ci saremmo potuti unire o divergere. Sullo sfondo di tutto questo, in un secondo piano tuttavia molto presente, ci sono poi alcuni racconti che riguardano la guerra. Da queste premesse abbiamo cominciato a provare, e ne è uscito questo spettacolo, che contiene la negazione del titolo proprio per chiarire in modo giocoso che non stiamo facendo Čechov».

Come avete gestito la questione delle diverse lingue parlate durante lo spettacolo?

«È una parte molto importante della performance. Durante le prove ci siamo trovati in una situazione paradossale: c’è la lingua con cui comunichiamo tra noi, un inglese piuttosto maccheronico e semplice; poi c’è l’italiano, la lingua che parlano le due attrici italiane tra loro e col pubblico. Ma sapevamo che a vedere questo spettacolo non ci sarebbero stati solo italiani, poiché la comunità ucraina è molto presente nel nostro paese: perciò abbiamo deciso che bisognava comunicare col pubblico anche in inglese, imprimendo l’idea dello sforzo comunicativo realmente impiegato tra noi. Infine nella performance ci sono l’ucraino, la lingua con cui le attrici comunicano tra loro, e la lingua russa, quella dell’aggressore in questo momento ma anche di Čechov stesso, e ciò basta a tematizzare di fatto l’uso di entrambe.
Le parti in italiano e in inglese hanno i sovratitoli in ucraino, e quelle in ucraino li hanno in italiano, così gli spettatori di qualsiasi nazionalità possono seguire senza problemi. All’atto pratico questa integrazione è stata difficile, per esempio quando chiedevo di fare delle improvvisazioni in ucraino non capivo nulla, se non grazie a quella “magia” che ha il teatro, e che permette di leggere il palco senza comprendere le parole».

Che significato ha l’esteso uso del frontepalco rispetto all’intento comunicativo generale?

«In verità questo aspetto deriva da un’impostazione che ho io in generale come regista. Ho la netta e personalissima sensazione che oggi il teatro sia diventato un luogo dell’incredibile: quando vedo due persone sul palco che parlano tra loro fingendo un dialogo, io come spettatore non riesco a credergli; non riesco più a mettere in campo quello sforzo immaginifico volto a farmi pensare che i due stiano parlando per la prima volta. Paradossalmente il teatro è diventato freddo, e per quanto la compresenza tra attori e pubblico persista, a parer mio è un elemento insufficiente. Mi annoio molto quando le persone parlano tra loro sul palco e io non ne faccio parte; mentre l’unica cosa a cui posso credere quando sono in platea, è che qualcuno stia parlando a me seduto fra il pubblico, piuttosto che a un attore impegnato a fingere la mia assenza. Perciò preferisco che si assuma pienamente la consapevolezza di essere tutti nella stessa stanza. Se un attore entra in scena, guarda il pubblico ed esplicita che è tutto vero, io lo sento vero. È una questione di gusto e ognuno è libero di trovare il linguaggio che preferisce; anzi sono consapevole che il mio sollevi spesso degli interrogativi, e talvolta mi chiedo se il teatro che faccio non sia troppo “quotidiano”.
Sta di fatto che in questa performance è raccontata la storia di come è stato fatto lo spettacolo, ovvero di una compagnia italiana che incontra una compagnia ucraina e del dialogo nato da questo incontro, sullo sfondo della guerra e di una vicenda di fuga. Per comunicare tutto questo abbiamo dovuto spogliare lo spettacolo di qualsiasi finzione ma non di certi artifici, in quanto tutto ciò che è fatto sul palco, seppure sia stato scritto a partire da improvvisazioni, è stato montato e coreografato prima di andare in scena. È tutto finto già così, al pari di entrare in scena con spade e corone di plastica. Alla luce di ciò, la cosa fondamentale è per me coinvolgere in modo diretto, e questa è la strategia che ho messo a punto come regista: mettere gli attori nella condizione di poter parlare al pubblico, in un dialogo diretto e poco filtrato che spero lo spettatore segua con trasporto. Oltre alla frontalità, poi, mi interessa parlare con chiarezza al pubblico: sono dell’idea di non lasciare troppi spunti aperti e inesplorati».

Cosa rappresenta per te Čechov in quanto autore?

«Čechov è un autore che amo da sempre, è il primo drammaturgo con cui mi sono confrontato quando da ragazzo ero attore. In questi dieci anni non l’ho mai abbandonato, e sono stato anche in Russia per studiarlo e visitare i luoghi che ha abitato. Čechov racchiude molto, se non tutto: è per me la sintesi ultima della letteratura teatrale. Certo, ci sono stati grandi autori dopo di lui, ma con lui si ha uno dei punti più alti raggiunti dalla teoria del conflitto teatrale. Con questo termine mi riferisco a ciò che governa la drammaturgia classica, nella quale si assiste a personaggi intenti a confliggere sulla scena, tramite il contrasto di obiettivi o opinioni. Ecco, la grande drammaturgia si potrebbe forse analizzare proprio alla luce di queste regole del conflitto. Čechov sviluppa i conflitti nascondendoli dentro le azioni o in personaggi estremamente umani; nei suoi testi dunque c’è un movimento opposto al mio, perché fa interagire gli attori fra di loro, ma dal canto mio, mi ispiro all’aspetto della contrapposizione in sé. Mi preme mantenere vivo il conflitto, e nonostante le attrici parlino raramente tra loro, ognuno dei monologhi è in conflitto con gli altri, seppure non in modo violento. C’è un processo di costante tesi, antitesi e sintesi. Nella drammaturgia abbiamo lavorato proprio su questi principi, piuttosto che portare avanti una sola tesi, e questo aspetto respira anche nel teatro più classico, proprio grazie a testi come quelli di Čechov. Anche per questo motivo, leggerlo non rende; anzi è meglio guardarlo a teatro per analizzare la profondità di ogni personaggio e di ogni interazione».

intervista a cura di Lorenzo Toriel