Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.

Luce gialla, luce bianca, quattro pupille scavate di nero. È una scenografia essenziale quella che accoglie lo spettatore; lo invita vicino ai due attori, come in una stanza vuota di buio. Lo spettacolo della regista Licia Lanera Con la carabina va in scena all’ex cinema Astoria per il festival Le Città Visibili. La saletta di questo vecchio edificio si presta bene a uno spettacolo studiato per luoghi senza palco, dai quali si può veramente guardare negli occhi la platea e arrivare più a fondo, quasi come se l’atmosfera accartocciasse l’ambiente su di sé.

Lo spettacolo, tratto dall’omonimo testo di Pauline Peyrade, ci racconta una storia di violenza dai particolari oscuri. I due attori Danilo Giuva ed Ermelinda Nasuto impersonano un ragazzo e una bambina protagonisti di una vicenda di pedofilia e violenza che parte un luna park, ispirata purtroppo a una storia vera. Lui era un amico di famiglia, insospettabile; anzi, fra i due si percepisce all’inizio una certa intesa. Tuttavia lei vuole solo un peluche da vincere (del resto come poteva desiderare ciò che non conosceva?, dirà più avanti), mentre nella mente del ragazzo matura ciò che succede dopo.

Un inizio a scena aperta permette di cominciare senza preamboli o presentazioni, proiettando la platea nella storia e in uno stato emotivo ben definito. Grazie all’inquieto ticchettio di sottofondo e all’intensità degli attori, un magone sale rendendo insostenibile ogni cosa. La vicenda è raccontata seguendo due piani temporali diversi, distinti dai cambi di colore delle luci: la luce gialla è il passato, l’evento scatenante, mentre la luce bianca rappresenta un futuro in cui c’è vendetta da parte della vittima, spostando il fuoco dello spettacolo dalla violenza sessuale verso il tema della vendetta e della violenza in generale.

Tutto potrebbe sembrare paradossalmente normale, un corteggiamento impacciato mentre i due sparano a dei bersagli per gioco. Però c’è qualcosa a sporcare questa immagine: un salto temporale dopo l’altro, le interazioni tra i due cambiano, e nei gesti dei due attori si percepiscono contatti forzati e scomodamente intimi, grazie a una recitazione talmente tagliente che arriva così tanto dentro noi spettatori, da farci sentire in qualche modo anche noi violati. La tensione all’esplicito ha modo di esplodere in più di un’occasione, con una crudità che ci sorprende coinvolgendo tutti i sensi e unendo la platea in un brivido collettivo. La cura messa nella narrazione non è scandita solo dalla precisione della performance, né nelle lacrime o dal sangue finti ma appropriati, bensì dalla grande consapevolezza infusa dagli attori nei loro personaggi: essi rendono una realtà tutta loro, non solo raccontando ma creando a loro volta una storia che le incorpora tutte.

Nel corso dello spettacolo talvolta le parole sostituiscono i fatti, in una sorta di pietà verso una platea già sufficientemente messa alla prova; altre volte certi gesti o oggetti sono accennati o traslati. Come quando la vittima della prima violenza torna a casa spogliandosi con rabbia, frapponendo un muro di silenzio e tentando di lavare via una vergogna che non sapeva nemmeno di poter provare: questo è un punto di svolta nella performance, vedendo una bambina che cambia il suo peluche con la carcassa di un coniglio vero, ne stringe al petto le nude carni e crolla accovacciata su se stessa. La bambina poi prova a soffocare il buio con una musica alta nelle cuffie: è un tentativo di coprire a se stessa il suono del pianto, unica liberazione concessa per poter dormire nel proprio corpo, in una fisicità che non potrà mai essere recuperata e che porterà lei stessa, da più grande, a vendicarsi contro il suo carnefice nel modo più definitivo possibile. Eppure nessun senso di libertà traspira da questo spettacolo, nemmeno dopo la vendetta: la regista infatti decide infatti di non lasciare nemmeno a noi la possibilità di spezzare la cupezza, e perciò non ci fa applaudire alla fine, costringendoci a lasciarci alle spalle i due attori per uscire. Lo spettacolo si chiude dunque nel silenzio, di nuovo a scena aperta, e ciò suscita inevitabili domande: tra la violenza subita e la vendetta inflitta, ci saranno mai dei colpevoli? Chi e come si potrà punire?

Lorenzo Toriel


«Che fai? Sei sola?». Una musichetta ripetitiva e angosciante, con suoni simili a un miagolio o un pianto di un neonato, fa da compagnia ai due attori già sulla scena. Un uomo e una donna sono seduti a un tavolo su cui è posta una luminosa ruota panoramica in miniatura, con il pubblico così vicino da essere completamente coinvolto dalla storia e dalle emozioni. Con la carabina, spettacolo teatrale diretto da Licia Lanera, vincitore di due premi Ubu nel 2022 per la migliore regia e migliore nuova drammaturgia straniera, è tratto da un testo della drammaturga francese Pauline Peyrade, tradotto da Paolo Bellomo e ispirato a una storia vera.

Una sera tra tante una bambina di undici anni gioca al luna park; il fratello che doveva badare a lei non c’è, e le si avvicina un amico di lui. Inizia un rapporto giocoso di tira e molla, di provocazioni e di curiosità innocente. Ma lui è uno stupidotto, abbastanza grandicello da avere pulsioni sessuali, quanto inconsapevole e diseducato dal punto di vista affettivo e relazionale. Crede che le ragazze siano un oggetto atto a soddisfare un piacere carnale, disposte e sempre disponibili a dire sì. Nella prima parte dello spettacolo, l’innocenza di lei è contrapposta ai modi manipolatori di lui; ma in un salto temporale, vediamo la vittima che è diventata adulta e decide di farsi giustizia da sola. «Povera merda! Sei così piccolo e incapace di prenderti qualcuno della tua età e di chiedergli il permesso? Questa è la base, stronzo! Non te lo ha detto la mamma, quando eri un piccolo stronzo, che non hai il diritto di prendere i giocattoli degli altri? Non puoi prendere quello che non ti appartiene! Non puoi fare quello che vuoi con ciò che non ti appartiene», dice lei mentre lo tortura.

La storia è continuamente divisa tra passato e presente, il primo ambientato in un luna park, il secondo in una stanza. In entrambi i luoghi si consuma una violenza, ma i ruoli di vittima e carnefice sono invertiti. Una storia cruda che mette di fronte alla bestialità provocata dalla mancata educazione all’emotività e alla sessualità, ma anche dall’inconsapevolezza del proprio corpo e di quello degli altri. Il personaggio maschile alla fine racconta a se stesso e agli altri che in fondo le voleva bene e che stava solo giocando. Eppure quelle azioni le ha compiute, pur non avendone l’intenzione, causando dei danni irreversibili alla ragazzina. Lei però, vendicandosi così di lui, non fa che riprodurre la violenza. In questo modo si è creato un altro mostro, ovvero una persona che si vendica per una violenza subita. Uno spettacolo necessario, che lascia nel dubbio: ci sentiamo di ringraziare la regista e gli attori per averci fatto viaggiare in modo così diretto attraverso il dolore e la sofferenza?

Ci vuole molta consapevolezza in questo periodo storico: vedere e sentire le conseguenze del dolore che si può causare agli altri e a se stessi. C’è una grande immaturità nell’emotività, nelle relazioni, nella sessualità, e anche se non abbiamo mai stuprato, violentato o compiuto altre azioni lesive nei confronti di una donna, cosa possiamo fare, in quanto uomini, per migliorarci e migliorare la qualità delle relazioni?

Tommaso Daffra