“Migrante”, “emigrante”, “immigrato” sono la stessa cosa? Premo le lettere sulla tastiera del pc e riempio il lungo rettangolo sotto la scritta Google. La risposta che mi suggerisce il dizionario online non mi soddisfa, ho bisogno di qualcosa di più umano. Continuo a cercare…Emigranti, persone che lasciavano una terra per andare altrove. Immigrati,  persone che si muovevano dalla loro terra per raggiungerne una nuova. Punti di partenza e punti di arrivo. Spostamenti che erano piccole parentesi e che contenevano un’identità da mantenere, che non smetteva mai di chiamare.

Ci penso su… Punti di arrivo? Ecco dunque la differenza: i punti di arrivo.

“Perpetua migrazione” leggo da qualche parte, e il termine mi incuriosice e mi risuona. Un nomadismo spirituale. Viaggi che non sono più piccole parentesi ma che prendono una vita intera, che non contengono  un’identità perché chi se lo ricorda più il punto di partenza? A chi interessa l’appartenenza? E poi questo famoso punto di arrivo, esiste?!

a cura di Gloria Perosin

Odissee Anonime di Roberto Mercadini, che aprirà il festival de Le Città Visibili martedì 16 luglio alle 21:30, racconta proprio di questo: la storia di Senza Nome e Nessuno, due migranti i cui nomi non verrano mai rivelati, che si spostano da un paese all’altro fino ad arrivare in Italia.

Roberto Mercadini, Cesena 1978, ha barba e capelli lunghi, occhiali tondi e mani che vanno in continuazione da una parte all’altra, come le sue parole. Ufficialmente è un ingegnere, ufficiosamente un poeta, un narratore, un monologhista, un “poeta parlante” si definisce lui, un “ingegnere di storie” piace pensare a me.

Con oltre 150 date all’anno, porta in giro per la Romagna e per il resto dell’Italia i suoi monologhi.

Roberto Mercadini, poeta, monologhista, narratore: poeta parlante. Ma questa è solo la punta dell’iceberg, chi sei sotto il pelo dell’acqua? O meglio, chi ti senti di essere?

Non saprei. Mi sembra di essere semplicemente una persona normale. D’altra parte, ognuno rappresenta la normalità per sé stesso. Ognuno, per sé stesso, è lo standard, il grado zero dell’esotismo, la più consolidata consuetudine. Vivo facendo un mestiere anch’esso normalissimo: racconto storie, a volte sul palco, a volte in un libro, a volte tramite i video. Raccontare storie è un’attività del tutto banale, nel senso che è qualcosa che l’umanità ha sempre fatto, ovunque nel mondo. Raccontiamo storie, presumibilmente, da quando siamo Homo sapiens, quindi da circa 200mila anni. Per questo mi fa sorridere chi chiama l’arte della narrazione Story telling, quasi a voler dare un’aura di modernità esotica alla cosa. È come se uno dicesse “pratico il Water drinking” per informarci che sta bevendo un bicchier d’acqua.

Da dove nasce la tua arte e come nasce e cos’è Odissee Anonime? Dove ci porta?

I miei monologhi nascono (quasi) sempre su commissione. Scherzando dico che lavoro su commissione come gli artisti-artigiani del ‘400.
Tento di capire quale sia il bisogno del committente, che tipo di urgenza lo abbia spinto a chiamarmi. Ascolto quello che hanno da dirmi lui e le persone indicate da lui sul tema del monologo, leggo il materiale che mi viene affidato etc. In pratica sto zitto e ascolto. Per costruire un monologo di un’ora, devo stare zitto ad ascoltare o a leggere almeno un mese. Un mese di silenzio per parlare un’ora. Per questo sostengo che il mio mestiere di narratore consista essenzialmente nello stare zitto.

Nel caso specifico di Odissee Anonime, la commissione mi è arrivata dagli SPRAR (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati, acronimo cancellato dal recente decreto sicurezza) della Valmarecchia. Il monologo racconta il viaggio di due ragazzi, uno proveniente dall’Afghanistan e l’altro dalla Costa d’Avorio. Quando si parla di immigrazione si discute quasi sempre e quasi solo della traversata del Mediterraneo e dei cosiddetti “barconi”. Ma quella, per quanto drammatica, è appena l’ultima parte del viaggio, il tratto terminale, la punta dell’iceberg (per usare a tua espressione). Le persone che arrivano da noi solitamente hanno affrontato un viaggio che, nel complesso, dura mesi o (più spesso) anni. Un viaggio discontinuo, fatto di spostamenti successivi, innervato di imprevisti, illudendosi e disilludendosi più volte di aver trovato una terra in cui stabilirsi. Un viaggio in cui la meta conclusiva non è praticamente mai quella programmata inizialmente. Per questo ha senso usare la parola “migranti” al posto di “immigrati”. È gente che continua a spostarsi per anni, permangono nella condizione di viaggiatori incerti, di “migranti”, appunto, per lunghissimo tempo. Mentre i nostri “immigranti” partivano da casa con una meta precisa, per esempio L’America. E il viaggio, per quanto straziante, durava giusto il tempo del trasferimento dal porto italiano a quello straniero. Dopo quell’evento, ci si ritrovava stabilmente nella difficile condizione di “immigrati”. Perciò il cambio di terminologia, a mio modo di vedere, è giustificato dal radicale mutamento del fenomeno.

Il 27 ottobre del 1981 Alberto Sinigaglia, in una puntata di Vent’anni al Duemila, intervistava Italo Calvino e gli chiedeva tre chiavi, tre talismani per il Duemila. Calvino rispondeva «imparare molte poesie a memoria per ripeterle anche da anziani e farsi compagnia, fare calcoli complicati a mano per rimanere concreti, ricordare che tutto quello che abbiamo ci può essere tolto da un momento all’altro».

In Odissee Anonime questo ultimo aspetto appare chiaro. Le tue tre chiavi quali sono?

Quello di imparare poesie a memoria mi sembra un suggerimento splendido e lo sottoscriverei.

Un’altra chiave, per me, sarebbe sostituire lo sforzo di capire all’emissione del giudizio. Viviamo in un’epoca intossicata da un fenomeno che chiamerei “recensionismo compulsivo”. Si recensisce tutto, sempre, immediatamente. Quasi sempre non si tratta di vere recensioni, cioè di analisi critiche, ma di semplici sfoghi in cui qualcuno comunica il suo grado di soddisfazione riguardo ad una certa esperienza. A prescidere dal fatto di avere capito o no, di essere in condizione o no di giudicare. Una pratica un po’ inutile.
L’ultima è usare la tecnologia e i social network per aumentare la vita reale e non come sostituzione della vita reale.

Devo ai social il fatto di riuscire a riempire spazi teatrali a Milano, a Roma, a Torino etc. Ma per me il fine è comunque fare teatro, su un palco vero, col mio vivo corpo. I like e le emoticons dei cosiddetti followers, servono per avere un pubblico vero e per sentire risate ed applausi veri, nel mondo reale. Se i like sostituissero gli applausi sarebbe un dramma.

E le tre chiavi che hanno cambiato la tua vita?

La prima è ascoltare. Ascoltare in tutti i sensi e con tutti i sensi. Ossia anche osservare, fiutare, gustare, ma sopratutto porgere attenzione, voler sapere, interrogarsi. Come esercizio ho compilato una sorta di schema, di grafico in cui elenco tutte le diverse forme e i diversi modi dell’ascoltare. L’ho chiamato “l’albero dell’ascolto”. Ne vado molto fiero e continuo a ritoccarlo e perfezionarlo ancora oggi, ogni tanto, dopo anni.

La seconda è oltrepassare i propri limiti. Sono pienamente convinto che incontriamo veramente noi stessi solo affacciandoci oltre il recinto che pensiamo delimiti la nostra identità. Diventiamo ciò che davvero siamo solo superando-ci, varcando i confini dell’idea di noi in cui siamo rinchiusi.
La terza è dare frutto. Penso che la felicità consista nell’esprimere se stessi in modo quanto più autentico. Come il melo produce mele e il ciliegio produce ciliegie. Solo che noi esseri umani siamo diversi dagli alberi: per poter dare buoni frutti, dobbiamo prima capire che specie di albero siamo. Ricollegandomi alla seconda chiave e completandola, direi che bisogna oltrepassare i propri limiti, ma allo scopo di compiere la propria vera forma e dare il proprio frutto, ma bisogna avere cura di non snaturarsi, di non tradire sé stessi.
Penso di aver trovato quello che cercavo.

Ci vediamo martedì 16 luglio all’ex macello, sempre in via Dario Campana 71, sempre con Le Città Visibili