Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.

«Per prima cosa mi suiciderò su questo tavolo, due volte. In seguito vi dirò una breve poesia sul tempo». Piccoli suicidi, spettacolo del 1984 di Giulio Molnár interpretato oggi dalla figlia Olivia, è un classico del teatro di figura che affronta con ironia e leggerezza il tema della morte, declinandolo attraverso l’uso di oggetti in modo inusuale. Con un linguaggio inventato, fatto di suoni e parole frammentate, accompagnato da un sapiente uso della gestualità, della mimica facciale e della voce per caratterizzare i personaggi in modo preciso e calzante. Due piccole storie e una poesia sul tempo regalano un’ora di riflessione attraverso il teatro di oggetti, in un lavoro di manipolazione in cui fiammiferi, chicchi di caffè e pastiglie digestive si raccontano e raccontano le loro storie coinvolgendo il pubblico tra risate e colpi di scena.

Nel primo episodio una manciata di caramelle incartate in pellicole di plastica colorata e una pastiglia di Selz affrontano i temi della diversità e dell’inclusione: allontanata dal gruppo e disperata, alla pastiglia non resta che tuffarsi in un bicchiere d’acqua e porre fine alla propria esistenza. La seconda storia è invece un suicidio d’amore: il fiammifero Jorg e il chicco di caffè Pita si rincorrono senza trovarsi mai, finché lei cade in un piattino confondendosi tra altri chicchi e Jorg per disperazione accende una sigaretta fino a consumarsi. Una volta scoperto l’accaduto, Pita finisce nel tritacaffè facendosi polvere.

Infine, nel terzo e ultimo episodio Olivia ha una mappa in mano, chiede informazioni per trovare la strada, stende la carta su una panca e la percorre camminandoci sopra. A ogni passo posiziona e schiaccia una nocciolina fino ad arrivare a casa della zia. Salendo le scale si fa più grande e arrivata alla porta si rende conto dell’inesorabile passaggio del tempo: di fronte alla fototessera della parente, è tutto più piccolo. L’attrice rovescia del caffè sul tavolo e con un gesto fluido vi disegna il simbolo dell’infinito, come a restituire che il tempo stesso è perfetto, al contrario dell’uomo che lo vive e lo occupa. Nuove variabili e nuovi oggetti si inseriscono in questo episodio: un tubetto di crema da barba plana sulla superficie e la sporca a più riprese, mentre una noce di cocco appare per contrastare le interferenze e per ripulire il tempo, ristabilendo una perfezione impossibile. Per quanto si provi a tenerlo in ordine, la condizione principale sarà sempre il caos, in un insieme di angoscia, voglia di vivere, paure, obiettivi e fallimenti. Un buco nero dove cadere, dove un anno passa in un minuto e ti rendi conto che non sei eterno. Ma questo non genera pensieri positivi bensì, al contrario, chiusura e rimpicciolimento. Una sensazione per cui il tempo sembra non bastare mai. Chi non ha mai avuto un tuffo al cuore, per esempio, pensando al suicidio o alla morte di un amico o un parente? In questi casi può succedere di ritrovarsi bloccati a pensare al momento della morte e che di noi non rimarrà più nulla, proprio come gli oggetti di Piccoli suicidi al termine della rappresentazione.

Tommaso Daffra


Uno spettacolo è una compagnia di attori, è un copione pieno di parole, ed è anche un palco, tre pareti reali e una quarta verso la platea gremita di gente. Oppure non è nessuna di queste cose. In Piccoli suicidi, Olivia Molnár ci porta in un’angusta saletta di uno studio di architettura. Nella penombra, un numero limitato di persone è testimone di un teatro diverso: gli attori sono oggetti, il copione per lo più suoni, e il palco non si restringe nei suoi limiti classici. Questo spettacolo vede l’attrice porsi al centro della quarta parete in modo da comunicare direttamente con la platea e allo stesso tempo portare avanti il filo delle metafore tracciate durante la performance. 

Tanti sono gli aspetti notevoli dello spettacolo. Già dall’inizio, infatti, la voce dell’attrice che presenta se stessa e la “compagnia di oggetti” gioca con l’evidenza di ciò che ha intorno, prima di ricoprire tutto con un velo di simbolismo. Recitano caramelle, noccioline, fiammiferi, prendendo vita nelle mani dell’attrice che li fa muovere su una scrivania/palco per raccontare storie di suicidi nei loro tratti essenziali.

Il teatro delle cose ha di certo qualcosa in comune con le marionette, ma se vogliamo far recitare degli oggetti non riconducibili a una forma umana, è necessario che l’attore contribuisca non solo facendoli muovere sul loro piccolo palco, ma anche usando il volto e la voce. Grazie alle espressioni facciali e alla fonazione si ha la possibilità di comunicare direttamente col pubblico, ma Molnár sceglie di usare questi importanti strumenti anche per un altro scopo: è infatti grazie a versi ed espressioni dalle tinte infantili che uno spettacolo dal titolo tetro assume inaspettatamente un’atmosfera di gioco e leggerezza, quasi come uno di quei vecchi cartoni, animati da suoni e azioni piuttosto che da parole. 

La mortalità, tema centrale dello spettacolo, prende forme diverse e alcuni degli oggetti sul tavolo hanno un finale volutamente chiamato: data la loro natura prima o poi dovranno morire, ovvero bruciare come un fiammifero o disciogliersi in acqua come una compressa. Anche la questione del tempo occupa una parte sostanziale dello spettacolo, a detta di Molnár stessa in una “poesia” fatta da una commistione di elementi visuali e narrativi, intrecciati con linguaggi tra loro diversi. In questa terza parte dello spettacolo, l’attrice si fa oggetto: ciò che ha addosso è anche una parte intima della sua vita, e facendo parte della compagnia di oggetti ci parla di tutte le cose, perché tutte le cose vivono nel tempo. In quella che è la parte più criptica della performance, va in scena un mondo iniettato di metafisica: tutto è sfumato e al contempo così visibile, percepiamo e dunque tocchiamo un’emozione, ma in qualche modo ci è difficile distinguere da chi o cosa arrivi. Così, Molnár comunica una realtà che potrebbe essere tranquillamente nota a molti ma ignorata da tutti: la morte è una cosa semplice, può persino essere raccontata come una favola o un gioco di simboli. Piccoli suicidi, a primo acchito, parrebbe guidato da un impulso dadaista, votato al caso per ragion d’essere, ma tutto sarà più chiaro solo se entrando nella stanza ci accorgiamo di una nozione fondamentale: conviviamo tutti della stessa precarietà, basta saperlo osservare.

Lorenzo Toriel


Dal soffitto penzola un lampadario appena qualche decina di centimetri sopra un tavolo, sul quale ci sono un bicchiere d’acqua e un sacchetto di carta tutto stropicciato, dal contenuto misterioso. Una donna entra in scena: indossa un vestito da operaio di colore scuro. Si presenta al pubblico: «Il mio nome é Olivia Molnár. Questa sera mi suiciderò su questo tavolo. Due volte». In realtà chi si suiciderà non sarà lei in prima persona, bensì gli oggetti a cui darà vita, anima e voce, in modo che essi stessi possano narrarsi. Questa é la cornice in cui nasce Piccoli suicidi, spettacolo di Giulio Molnár in programma al festival Le Città Visibili di Rimini.

Il primo suicidio è conseguenza dell’emarginazione di una compressa di Selz da parte di un gruppo di caramelle colorate. La pastiglia tenta di eludere la sua solitudine cercando di indossare l’involucro colorato delle altre caramelle, ma senza successo: continuando a restare isolata, compie il gesto estremo buttandosi nel bicchiere d’acqua.

«Il secondo suicidio é un suicidio d’amore», ci spiega in seguito Olivia. Si tratta della storia tormentata tra la brasiliana Pita (una chicca di caffè) e lo svedese Jorg (un fiammifero), che si perdono e si ritrovano cercandosi a lungo e tentando di scappare dal destino che la loro funzione implica, fino a che Pita non viene schiacciata dalla macina e Jorg, consumato dal dolore, si dà fuoco e muore.

L’attrice riesce in modo straordinario a incarnare le personalitá di tanti oggetti diversi, rendendoli umani a tal punto da far empatizzare il pubblico con loro e i loro sentimenti. Così che quando le caramelle deridono la compressa, si puó sentire sulla pelle l’umiliazione; e quando Jorg vede il corpo di Pita ridotto in caffè in polvere, si puó sentire tutta la sua disperazione. La modulazione della voce, unita alla mimica facciale, produce una lingua degli oggetti nuova e apparentemente coerente, dall’effetto inevitabilmente comico. É proprio la sua comicità a rendere questo spettacolo perturbante: l’antefatto del suicidio é talmente leggero e frizzante da riuscire a esorcizzarne, inaspettatamente, la sua tragicità.

La terza parte dello spettacolo si compone di una “poesia sul tempo”. Olivia ripercorre alcuni episodi quotidiani, come andare a casa della vecchia zia a trovarla, e lo fa utilizzando oggetti simbolici come una cartina geografica su cui cammina, che rappresenta il viaggio. Inizia così un monologo che oscilla tra l’onirico e il poetico: Olivia impersona il tempo che passa, vedendo le persone e i luoghi della sua vita sempre più piccoli fino a diventare noccioline, le quali vengono inevitabilmente schiacciate da lei. «Il tempo passa e il suo corpo sciolto lascia un giardino tutto nero», «Niente al mondo può scalfire il tempo», «Il tempo è tabù»: queste sono alcune delle frasi che Olivia ripete in tono solenne, come se provenissero da un vecchio libro polveroso trovato in un luogo sacro, quasi fossero profezie. Alcuni personaggi-oggetti provano a interferire con la potenza del tempo, ma invano: ogni tentativo di cambiare il corso degli eventi viene infatti investito dalla rabbia di Olivia e punito dai suoi “soldati”. La perfezione a cui lei tanto aspira diventa sempre più lontana, fino a che tutto non esplode nel caos. Forse è questo il senso profondo del terzo atto di Piccoli suicidi: nulla sarà mai perfetto nonostante i nostri sforzi, perché la vita è imprevedibile, priva di senso logico, e il passare del tempo non fa altro che incrementare questo disordine. É impossibile controllare tutto; forse, allora, tanto vale godersi il viaggio senza farsi troppe domande.

Elena Tassinari


Piccoli suicidi è uno spettacolo dedicato a un pubblico ristretto, che si svolge all’interno di una piccola stanza poco illuminata. Un’atmosfera intimista per parlare, attraverso degli oggetti, di temi intrinsecamente umani: il suicidio e la soggettività del tempo. Olivia Molnár, interprete e figlia dell’autore dello spettacolo Giulio Molnár, che lo ha scritto nel 1984, avanza nella luce fioca con indosso una giacca da lavoro e in mano una busta. Lo spettacolo sta per iniziare, dice, uno spettacolo all’interno del quale si suiciderà due volte, per poi recitare una poesia sul tempo. Ed ecco che iniziano i suoi suicidi, o meglio, quelli degli oggetti all’interno della busta. Prima è la volta di una pastiglia di digestivo Selz che, sentendosi esclusa e non compresa da un gruppo di cioccolatini incartati con colori sgargianti, decide di compiere l’atto estremo: buttarsi dentro un bicchiere d’acqua, dove le sue particelle si separeranno fino a fondersi completamente col liquido. Poi è la volta di Jorg, rampante fiammifero che a seguito della morte della sua amata Pita, chicco di caffè trasformato in polvere, si lascia bruciare accanto a del caffè appena versato. Arriva infine l’ultimo atto, in cui l’attrice si appella direttamente al tempo, attribuendogli un potere tirannico e sguinzagliando i suoi scagnozzi, impersonificati in una noce di cocco, per rimettere al proprio posto qualunque ostacolo tenti di interrompere l’inesorabilità dello scorrere ordinato delle cose. Il tavolo su cui avviene la scena diventa un campo di battaglia: schiuma e crema da barba imbrattano noccioline adagiate su un cumulo di polvere di caffè, mentre la noce di cocco tenta di fermare questo assedio sempre più insistente, per poi infine arrendersi all’impossibilità di mettere in ordine una realtà che altro non è se non caos.

Piccoli suicidi è figlio del teatro di oggetti, i quali si sobbarcano di sentimenti ed emozioni che appartengono in realtà a una condizione umana come l’abbandono e la solitudine, raccontati attraverso una pastiglia digestiva che vorrebbe essere un cioccolatino, o la passione così forte e dominata dall’amore che spinge il fiammifero Jorg al sacrificio più grande pur di stare insieme all’amata Pita. Infine c’è la lotta tra la noce di cocco e la schiuma da barba, che mette lo spettatore di fronte a paure primordiali: quella della morte e della fluidità del tempo, che a volte vola, altre corre e altre ancora semplicemente scorre.

Lo spettacolo utilizza una chiave comica, fatta di voci modulate e grottesche espressioni facciali, che mira però a far riflettere il pubblico mettendolo in un primo momento davanti ai timori da cui cerca di scappare, e poi costringendolo a fronteggiare il caos che padroneggia il nostro mondo, rappresentato dall’immagine finale dello spettacolo: un tavolo su cui regnano il disordine e la dispersione di oggetti randomici, la giacca di Olivia Molnàr imbrattata di caffè e schiuma da barba e la faccia con un’espressione indecifrabile, che incarna la confusione ai limiti della follia con cui ognuno di noi ha a che fare ogni giorno della propria vita. Un’opera che, seppure abbia compiuto quasi 40 anni, rimane attuale e puntuale tanto per le tematiche universali, quanto per la maniera in cui vengono affrontate, facendo muovere entità inanimate ma dando loro un’anima e una funzione sociale. Proprio per questo si potrebbe pensare di avere compreso Piccoli suicidi alla prima visione, ma ci si accorge che non è così una volta arrivati a casa, mentre ci si siede e si rimugina, cercando di scoprire tutto quello che è stato detto dietro quei fiammiferi, cioccolatini, noci di cocco e chicchi di caffè. Da quella piccola sala si esce con sulle labbra lo spettro delle risate emesse, negli occhi una strana malinconia e la sensazione paradossale di essersi immedesimati in quegli oggetti e nelle loro azioni.

Alessandra Sabbatini