Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.

«Lacrime»: una parola tramutata in suono apre la scena a un palco cupo e tetro. Amore racconta allo spettatore una storia, con parole rotte dal dolore e muovendosi tra le voci dei personaggi. Adone non c’è più, e la dea ha maledetto chi scoccò quella freccia legandolo per sempre a lei. Roberto Latini porta in scena Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni, un mito moderno, una rilettura contemporanea del poema shakespeariano. Lo spettacolo, visto al Teatro degli Atti di Rimini per il festival Le Città Visibili, inizia con la punizione di Eros: Amore è ora lo scheletro scarnificato di ciò che era un tempo, come se la morte lo avesse inquinato. Il primo movimento dello spettacolo, che ha come protagonista e narratore Amore, oltre a darci un assaggio del turbamento che percorrerà come un brivido tutta la performance, fa anche da nodo principale per tutte le scene successive. Da subito siamo testimoni di una delle componenti fondamentali dello spettacolo, ovvero la fluidità. Latini lascia spazio alla sua opera di mutarsi a ogni replica, quasi come il sentimento dell’amore, endemico dell’uomo, che cambia e cresce con lui. Persino il palco stesso contribuisce a colpire la sensibilità dello spettatore, grazie all’uso dei suoni combinato con le forme assunte dal corpo dell’attore nei costumi e progressivamente sempre meno antropomorfizzate.

Un altro punto cardine è senz’altro la forte simbologia intratestuale, ossia la presenza di alcuni elementi ricorrenti tra scene differenti, costituendo così una rete di ingegnosi riferimenti. La comparsa dei due protagonisti della vicenda gioca con la razionalità dello spettatore, come per esempio nell’episodio dedicato ad Adone, che si svolge prima della sua morte o forse dopo: materializzato nell’amore perduto, Adone si muove caduco e mortale, e in una bolla metateatrale, l’attore che lo interpreta genera prima lacrime finte come quelle di un personaggio e poi lacrime vere come quelle di un uomo. La rappresentazione di Venere vede invece il lutto accostarsi alla follia di chi continua ad anelare un futuro impossibile: l’amore nei confronti di un uomo introduce il dramma di una condizione in cui persino l’immortalità diventa nulla, davanti alla sofferenza per non poter avere l’oggetto del proprio desiderio.

Latini anima di pathos i suoi personaggi grazie a passi decisi in una scenografia in continuo movimento, in cui l’attore, oltre a recitare, sposta e posiziona freneticamente gli oggetti in scena. Inoltre, per tutta la durata della performance Latini introduce elementi molto dissonanti tra loro, dando origine a una cacofonia sonora e immaginifica dalle tinte crude, concrete e carnali, dipanate gradualmente nell’ampiezza degli episodi, finché verso la fine dello spettacolo il turbamento accenna a smorzarsi. “Chiunque”, l’ultimo movimento dell’opera, è il risultato di una punizione, in cui l’attore vive l’affetto e l’amore come sostanze malate di una mancanza irrimediabile, una mancanza che poggia sulla mortalità umana, un amore insufficiente e dalle movenze false e artificiali.

Venere e Adone si potrebbe vivere come se l’attore non ci stesse guidando: la grande libertà dell’opera si riflette infatti nella libertà interpretativa dello spettatore, che vede in scena un amore ferito e avvilito a tal punto da essere irriconoscibile. Il sottotitolo dello spettacolo, un ulteriore rimando diretto a Shakespeare, prende forma proprio in questo principio di disagio e dissonanza vitale, di un idillio che non è e non sarà più, di una gioventù che non ha benedetto Adone e di un Amore che è stato debole e distratto. Quella che va in scena è una sinestesia tra impressioni di umanità e il potere intrinseco degli oggetti sul palco, sonori di significato. Non ci si cala tra le sfaccettature dell’amore lungo un percorso prestabilito, ma si lascia a ogni nucleo tematico lo spazio necessario per coesistere.

Lorenzo Toriel


«Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni», la frase lasciata morire sullo schermo a fine spettacolo, è il sottotitolo di Venere e Adone di Roberto Latini. Al quarto appuntamento del festival Le Città Visibili, l’attore ha portato in scena una rivisitazione moderna del mito ovidiano e dell’omonimo poema di William Shakespeare che sottolinea, con pungente ironia, l’influenza dell’innovazione tecnologica e dell’allontanamento sociale e interpersonale causato dal baratro dell’alessitimia e dell’indifferenza.

Un uomo solo sul palco, che domina la scena e telecomanda un robot, dà vita a quello che in fin dei conti è un involucro. A questo involucro l’attore si aggrappa, abbracciandolo e supportandolo quasi morente, alla fine, con lui; ma si tratta solo di un guscio perfettamente vuoto. Potrebbe trattarsi metaforicamente di un’ipotetica realtà, in cui una persona innamorata, o che almeno si crede tale, costruisce il suo sentimento e il rapporto con l’altro, forte dell’idea che il partner faccia lo stesso, quando invece lo sta facendo da solo. E allora la sostanza, la materia e l’amore esistono, oppure siamo noi a dargli forma e significato solo per l’idea che abbiamo di essi? Sarà forse un ideale di amore quello che creiamo dentro di noi e a cui ci aggrappiamo?

La voce rotta e penetrante di Latini avvolge l’intero teatro e accompagna il pubblico nel romantico e straziante universo che circonda il mito di Venere e Adone e il concetto stesso di amore. Cosa manca all’essere umano per essere felice, per sentirsi completo, per amare? L’amore è reale o è solo l’illusione di amare e di essere amati? Venere e Adone è un’opera estremamente incisiva e suggestiva, anche se a tratti disturbante e fastidiosamente intima: un gobbo azzoppato che suona il violino in modo talmente penetrante da essere quasi sgraziato, una figura dietro a un bersaglio per freccette che si dimena pronunciando una sfilza di aggettivi e parole, accostate armoniosamente una dopo l’altra per paronomasia, ma che si rincorrono con una tale ferocia che sembrano volersi divorare, distruggendosi a vicenda. E poi ancora, un goffo, calcolato ed esasperato tentativo di mostrare il proprio lato tenero e incondizionato, comprensivo e introspettivo, che però sembra non esistere se non su uno schermo, quello della telecamera con cui l’attore si registra. L’interprete, così, cerca di far arrivare un ultimo e disperato messaggio, a cui evidentemente neanche lui crede davvero, ma al contempo sperando che la persona a cui arriverà ci creda.

Maschere, frecce scoccate, voci lacerate, parole soffocate, sussurrate e urlate, versi, pianti e lamenti: è proprio questa mancanza che ci permette di apprezzare e dare valore alla sostanza delle cose. È l’assenza della persona amata a ricordarci quanto sia bramata la sua presenza. È dove non è la morte che può esserci la vita, è dove non è il sogno che può esserci la realtà. Venere è immortale come può esserlo l’amore eterno, Adone è mortale come può esserlo l’ineluttabilità della vita e la concreta consapevolezza della morte.

Sara Brugnettini


«Forse l’amore è l’unica morte, in vita, che ci possiamo concedere eppure è l’unica che non vorremmo mai piangere». È domenica 27 agosto e al Teatro degli Atti di Rimini va in scena Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni di Roberto Latini, all’interno del festival Le Città Visibili.

Lo spettacolo inizia con il palco vuoto e la parola “Amore” proiettata sullo sfondo. Il silenzio è interrotto dal suono di una pioggia di lacrime. Latini, stretto da una gabbia toracica metallica, attraversa il palco ad ali spiegate. Si ferma di fronte al microfono, chiude gli occhi stringendosi al suo arco privo di frecce – ultimo collegamento con questa dimensione – e inizia a recitare. Ciclicamente, con i piedi malfermi, solleva l’arco e scaglia frecce invisibili verso la platea.

Il testo, concepito durante il lockdown, è una rilettura del mito di Venere e Adone narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, e ripreso anche da Shakespeare proprio nel 1593, durante la chiusura dei teatri a causa della peste. Venere che ama alla follia Adone, che le è indifferente e preferisce a lei la caccia, andando incontro alla morte.

Il testo che Roberto sussurra al microfono diviene l’unico espediente a cui aggrapparsi nel buio, mentre voce e musica ci trascinano in un viaggio nelle emozioni: malinconia, nostalgia e angoscia si rincorrono sulla nostra pelle, fino al capolinea: un fiore bianco, ultimo frammento di Adone, portato al cuore dall’amata Venere.

Non c’è alcuno schermo a difenderci dal dolore a cui siamo esposti. Nemmeno l’attore ci guarda; siamo soli e impotenti davanti alla tragicità della morte e alla sua mancanza di senso. Una morsa allo stomaco ci coglie. Dura un attimo.

Il registro cupo si dissolve, il palco si illumina a giorno, mentre l’attore si libera di ali e fardelli. Sullo sfondo campeggia la scritta “Cinghiale”. In maglietta bianca, jeans e corona, finalmente l’attore ci degna di uno sguardo; anzi, ci viene incontro. Latini diventa un re facchino che trascina dietro le quinte sia il testo sia gli oggetti di scena. Abbandonati i toni formali, il monologo viene recitato distrattamente assumendo quasi una dimensione colloquiale: un amico che ci risponde mentre sistema casa. Ora, al centro del palco, troviamo un bersaglio da freccette e una passerella rossa che la macchina del fumo offusca ritmicamente. Ci ritroviamo immersi nella foresta della celebre battuta di caccia. Novelli topi, inseguiamo il nostro pifferaio magico, solo che in mano ha un violino e produce musica techno.

Un battito d’occhio e anche il secondo atto scompare. Latini cambia pelle e indossa una vestaglia camminando sinuoso. È Adone, e si siede sul divanetto gonfiabile languidamente illuminato al centro della scena. Il volto dell’attore viene proiettato dalla telecamera sul muro mentre un gobbo luminoso ci mostra il messaggio rivolto a Venere. La narrazione assume una comicità inaspettata: battute che giocano sulla mancata sincronicità tra voce e gobbo, lacrime finte create ad hoc lanciandosi acqua in faccia. Adone si scopre essere un Narciso qualunque. Non è stato il cinghiale; la sua scomparsa è il semplice ghosting di chi manipola gli altri e si dimentica di avere emozioni a sua volta.

È il turno di Venere, il quarto atto. Sul palco nuovamente vuoto, risuona il rumore della pioggia. L’attore diventa Venere cosparsa di stracci che, straziata dal dolore, trascina un carrello della spesa e si avvicina quasi al limite del palco con la mano tesa. Il racconto di una felicità fallita ci arriva doppiamente, come un’eco, ripetuto sia dalla registrazione sia da Venere. E tornano le lacrime. Lacrime che sono sale sulle ferite d’amore. Sale sui “visualizza e non risponde”. Sale per cui Venere darebbe la sua stessa vita. Lo spettacolo diventa un ponte da attraversare per rivivere tutte le relazioni amorose ambigue e spiacevoli, dove la verità cede il passo alla sofferenza e da lei si fa circuire.

E poi ci siamo noi, “Chiunque”. Quinto atto, dove un cane robot compare sul palco saltellando a ritmo ed eseguendo piccole coreografie, quasi un tip tap automatizzato. Dopo alcuni minuti l’attore lo raggiunge sul palco in felpa e cappuccio. Il cane smette di saltellare, si accascia sul palco, sfiancato o più probabilmente rotto, e non risponde più ai comandi. Il robot diviene una creatura sintetica su cui pennellare i nostri sentimenti, l’amore puro per il nostro animale domestico e il desiderio di proteggerlo.

L’attore avvolge il cane con il suo abbraccio, anche se forse non lo ha mai percepito realmente né lo percepirà mai. Non possiamo che provare tutto l’affetto del mondo per quella creaturina in-esistente, e viene da chiedersi, quanto bisogno abbiamo d’amore? Noi, fatti della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni?

Michela Tiddia